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Infortuni sul lavoro e ruolo dell’odv: la cassazione nega l’automatica sovrapposizione della colpa di organizzazione alla colpevolezza del responsabile del reato.

Infortuni sul lavoro e ruolo dell'odv: la cassazione nega l’automatica sovrapposizione della colpa di organizzazione alla colpevolezza del responsabile del reato.

Cass. Pen. Sent. Sez. IV N. 18413 del 10.5.2022

  1. IL CASO

La vicenda trae origine dalla sentenza con cui la Corte d’appello di Venezia, nel gennaio del 2021, confermava la decisione del Tribunale di Vicenza che aveva affermato la responsabilità di una S.r.l. per l’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies, comma 3, d.lgs. n. 231/2001, per avere – come ente alle cui dipendenze lavorava la persona offesa, rimasta ferita alla mano sinistra durante un’operazione di raddrizzamento di un cartone – consentito il verificarsi del reato di lesioni personali, aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica.

In particolare, detto delitto veniva commesso, secondo la prospettazione accusatoria, dal legale rappresentante della società nell’interesse dell’ente, in ragione dell’assenza di un modello organizzativo avente ad oggetto la prevenzione degli illeciti in materia di sicurezza sul lavoro oltreché di un organismo di vigilanza che verificasse il rispetto dei protocolli del modello con sistematicità e organicità la rispondenza delle macchine operatrici, acquistate e messe in linea, alle normative comunitarie in tema di sicurezza, nonché l’adeguatezza dei sistemi di sicurezza installati sulle stesse.

La Corte di appello, nel confermare la responsabilità dell’ente, constatava la mancanza – nel macchinario e all’epoca dei fatti – di un dispositivo di spegnimento automatico in caso di toccamento delle lamiere. I Giudici individuavano, pertanto, l’interesse della società nella mancata rivalutazione e monitoraggio dell’adeguatezza del macchinario, risalente al 2001, in quanto privo dei dispositivi di blocco necessari ad evitare infortuni come quello oggetto del caso di specie, avvenuto nel 2011, nonché la mancanza di un modello organizzativo in materia prevenzionistica.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione la S.r.l., che lamentava:

  1. la violazione di legge e vizio di motivazione, per avere, da una parte, riconosciuto come la lavoratrice fosse esperta e istruita adeguatamente quanto a conoscenza delle procedure e dei rischi, e ciononostante avesse, in occasione dell’infortunio, agito d’istinto, spostando il foglio con la mano senza fermare la macchina per non rallentare il lavoro; dall’altra, nonostante la lavoratrice avesse tenuto un comportamento antitetico al modello insegnato e conosciuto, i giudici di merito hanno omesso di riconoscere l’interruzione del nesso causale ovvero, in subordine, non hanno reso specifica motivazione sulle ragioni per le quali la società sia tenuta a rispondere “oggettivamente” di qualsivoglia atteggiamento istintuale, posto in essere persino da una lavoratrice esperta;
  2. la contraddizione in cui incorre la sentenza impugnata, laddove addebita alla società la mancata rivalutazione in ordine all’adeguatezza del macchinario, risalente al 2001, nonostante abbia in precedenza dato conto degli esiti dei controlli del 2008 effettuati dall’Organismo Notificato CE nonché di quelli del 2009 ad opera del tecnico incaricato dall’ente allo scopo;
  3. il mancato accertamento relativo all’esistenza dell’interesse in capo all’ente, direttamente derivante dall’omessa adozione del c.d. modello organizzativo, a fronte di costi assai elevati sostenuti dall’ente in materia di sicurezza, come documentato in appello, a dimostrazione di una costante scelta aziendale di investimento e spese in sicurezza, incompatibile con l’affermata finalità orientata al risparmio sui conti d’impresa;
  4. sottolineava, infine, come nella specie non era stato evidenziato alcun concreto collegamento finalistico tra la violazione prevenzionistica e l’interesse dell’ente, né alcun concreto vantaggio di cui avrebbe beneficiato la società ricorrente dalle riscontrate omissioni.

 

2. LA DECISIONE

Il Supremo collegio nelle prime battute della motivazione ha evidenziato come già il capo d’imputazione risultasse affetto da un deficit strutturale in quanto non lasciava emergere con chiarezza il concreto profilo di responsabilità della società ai sensi del dlgs.231/01 avuto riguardo all’interesse dell’ente rapportato alla riscontrata assenza di un “modello organizzativo”,la cui efficace adozione consente all’ente di non rispondere dell’illecito, ma la cui mancanza, di per sé, non può implicare un automatico addebito di responsabilità”.

Invero, la corte sottolinea che sussistono due criteri d’imputazione oggettiva del fatto illecito all’ente in quanto tale, nel senso che l’illecito amministrativo a carico dell’ente si configura quando la commissione del reato presupposto da parte di persone fisiche “sia funzionale ad uno specifico interesse o vantaggio a favore dell’ente stesso”. In particolare, “l’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; il vantaggio ha, invece, una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito”.

Ed infatti, la Giurisprudenza più recente della corte di Cassazione ha ribadito come “la struttura dell’illecito addebitato all’ente risulta incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale corrente tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno unicamente la funzione di irrobustire il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggetto incardinato nell’organizzazione ma per fini estranei agli scopi di questo (così, in motivazione, Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Castaldo)”.

Ciò, a detta dei giudici di legittimità “consente di affermare che l’ente risponde per un fatto proprio e non per un fatto altrui, ma non pone al riparo da possibili profili di responsabilità meramente oggettiva” sicché emerge con chiarezzala necessità che sussista la c.d. ‘colpa di organizzazione’ dell’ente, il non avere cioè predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato; il riscontro di un tale deficit organizzativo consente una piana e agevole imputazione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo”. Continua la corte “in questo senso vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo“.

E’, pertanto, proprio l’enfasi posta sul ruolo della colpa di organizzazione e sull’assimilazione stessa alla colpa, intesa quale violazione di regole cautelari, che conduce i giudici ad affermare che: “la mancata adozione e l’inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente agli artt. 6 e 7 del decreto n. 231/2001 e all’art. 30 del d.lgs. n. 81/2008 non può assurgere ad elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente ma integra una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione, la quale va però specificamente provata dall’accusa, mentre l’ente può dare dimostrazione della assenza di tale colpa. Pertanto, l’assenza del modello, la sua inidoneità o la sua inefficace attuazione non sono ex se elementi costitutivi dell’illecito dell’ente”.

Al contrario, possono essere considerati elementi costitutivi della responsabilità dell’ente da reato:

  • la compresenza della relazione organica’ e teleologica tra il soggetto responsabile del reato presupposto e l’ente (cd. immedesimazione organica “rafforzata”),
  • la colpa di organizzazione;
  • il reato presupposto;
  • e, infine, il nesso causale che deve correre tra i due.

Nel caso di specie, invece, la corte territoriale si sarebbe limitata ad addebitare all’ente la mera assenza di un modello organizzativo, senza specificare in positivo in cosa sarebbe consistita la “colpa di organizzazione” da cui sarebbe derivato il reato presupposto, che è cosa diversa dalla colpa riconducibile ai soggetti apicali autori del reato, ritenuti colpevoli in ragione della violazione di norme prevenzionistiche, in qualità di datori di lavoro, ma non per questo automaticamente addebitabili all’ente. Al contrario l’ente è chiamato a rispondere di un illecito distinto, sia pure derivante dal medesimo reato.

È bene, tuttavia, ribadire e sottolineare che gli aspetti che riguardano le dotazioni di sicurezza e i controlli riguardanti il macchinario specifico sul quale si è verificato l’infortunio, attengono essenzialmente a profili di responsabilità del soggetto datore di lavoro; quindi, a profili colposi degli amministratori della società cui è stato addebitato il reato, in relazione alla riscontrata violazione della normativa per tutela della sicurezza sul lavoro. Tali profili, di per sé, nulla hanno a che vedere con l’elemento “colpa di organizzazione”, che caratterizza la tipicità dell’illecito amministrativo imputabile all’ente. Tale elemento costituisce, per così dire, un modo di essere “colposo”, specificamente individuato, proprio dell’organizzazione dell’ente, che abbia consentito al soggetto (persona fisica) organico all’ente di commettere il reato”.

Pertanto i Giudici pongono l’accento sul fatto: “l’elemento finalistico della condotta dell’agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica quanto di un preciso assetto organizzativo “negligente” dell’impresa, da intendersi in senso normativo, perché fondato sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn).” E concludono evidenziando come: “nell’indagine riguardante la configurabilità dell’illecito imputabile all’ente, le condotte colpose dei soggetti responsabili della fattispecie criminosa (presupposto dell’illecito amministrativo) rilevano se riscontrabile la mancanza o l’inadeguatezza delle cautele predisposte per la prevenzione dei reati previsti dal d.lgs. n. 231/01. La ricorrenza di tali carenze organizzative, in quanto atte a determinare le condizioni di verificazione del reato presupposto, giustifica il rimprovero e l’imputazione dell’illecito al soggetto collettivo, oltre a sorreggere la costruzione giuridica per cui l’ente risponde dell’illecito per fatto proprio (e non per fatto altrui). Ciò rafforza l’esigenza che la menzionata colpa di organizzazione sia rigorosamente provata e non confusa o sovrapposta con la colpevolezza del (dipendente o amministratore dell’ente) responsabile del reato.”

I giudici, in chiusura, non mancano di censurare la sentenza di appello nella parte in cui effettua una “inammissibile lettura della norma di cui all’art. 25-septies, in base alla quale l’affermazione della responsabilità dell’ente consegue indefettibilmente alla sola dimostrazione della sussistenza del reato presupposto e del rapporto di immedesimazione organica dell’agente; il tutto, fra l’altro, attribuendo all’organismo di vigilanza compiti incardinati nel sistema di gestione della sicurezza (dei macchinari aziendali) del tutto estranei ai compiti che l’art. 6 d.lgs. n. 231/2001 assegna a tale organismo, che sono quelli di sorvegliare e verificare la funzionalità e l’osservanza dei modelli organizzativi).”

Per questi motivi la corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza impugnata.

Avv. Adamo Brunetti

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