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Responsabilità dell’ente ex Decreto 231 e reati colposi: chiarimenti della Cassazione

Responsabilità dell’ente ex Decreto 231 e reati colposi: chiarimenti della Cassazione

Corte di Cassazione – IV Sez. Penale – sentenza 20 ottobre 2022 n. 39615/2022 (udienza 26/01/2022) (aodv231.it)

1.    Introduzione

Con la pronuncia n. 39615 del 20 ottobre 2022, ai fini del riconoscimento della responsabilità amministrativa da reato ex D.lgs. 231/2001, la Corte di Cassazione si è si è pronunciata in merito alla condanna della Corte di appello emessa a seguito di un giudizio di responsabilità espresso a carico di una società per l’illecito amministrativo di cui agli artt. 5 e 25 septies D.lgs. 231/2001 in relazione alle lesioni colpose patite da un dipendente per effetto della violazione delle norme poste a tutela della sicurezza sul lavoro.

2.    Il caso

La Suprema Corte ricostruisce, innanzi tutto, il grave infortunio oggetto di giudizio.

Il sinistro era avvenuto in occasione di un’operazione di sostituzione di un nastro trasportatore finalizzato a fare confluire materiale per la fusione all’interno di un silos. La persona offesa era l’unico dei componenti di una squadra di quattro operai a trovarsi sulla sommità del silos.

L’infortunio si era verificato a seguito del transito di una componente del carroponte, alla cui guida si trovava altro componente della squadra, che aveva provocato lo schiacciamento del capo della vittima contro uno spigolo della balaustra. A seguito del sinistro lo aveva riportato lesioni gravissime, comportanti una invalidità permanente del 75%.

Avverso la sentenza propone ricorso la società, a mezzo del suo difensore, formulando plurimi motivi di impugnazione:

  • con il primo motivo deduce contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato presupposto;
  • con il secondo motivo deduce violazione di legge e mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in relazione alla sussistenza del requisito dell’interesse e del vantaggio ai sensi del d.lgs 231/2001;
  • con il terzo motivo censura, infine, il vizio di motivazione, sotto il profilo della calcolo della sanzione amministrativa e dell’importo delle quote.

3.    Le argomentazioni della Cassazione

Ai fini della pronuncia, la Suprema Corte si preoccupa di ricostruire la disciplina e la giurisprudenza del d.lgs. 231/2001 con riferimento all’applicabilità ai reati colposi.

Dal punto di vista oggettivo, il decreto 231 prevede una connessione duplice con il reato presupposto.

Infatti, come ricorda la Cassazione, da un punto di vista oggettivo, l’art. 5 del decreto richiede che la persona fisica abbia agito nell’interesse o avantaggio dell’ente. Dal punto di vista soggettivo, inoltre, il medesimo articolo richiede la sussistenza di un rapporto fra la persona fisica e l’ente.

In particolare, due possono essere i rapporti rilevanti: ex art. 5, c. 1, lett. a), la persona fisica può trovarsi in posizione apicale all’interno dell’organizzazione dell’ente, ovvero, ex art. 5, c. 1, lett. b), può essere sottoposta all’altrui direzione. La lettera a) tipizza il c.d. principio di identificazione, per il quale l’ente si identifica nel soggetto in posizione apicale e così, dunque, è come se avesse direttamente commesso il reato. Come sottolinea la S.C., “è tuttavia previsto un contemperamento: l’ente non risponde se prova la sussistenza di tutti e quattro i criteri appositamente previsi dal successivo art. 6, c. 1, ossia l’esistenza e la corretta attuazione di modelli eli organizzazione e gestione idonei a prevenire la commissione di reati della specie di quello verificatosi”. Nel caso dei soggetti di cui alla lettera b), invece, “ci troviamo di fronte ad una vera e propria fattispecie colposa, prevista dall’art. 7 del decreto, a norma del quale l’ente risponde se non ha rispettato i propri obblighi di direzione o di vigilanza, i quali fanno capo al modello di organizzazione, gestione e controllo previsto dal decreto e considerato dai commi 2, 3 e 4 dell’art.”.

Pertanto, la S.C. ben riassume che: “La responsabilità degli enti può dunque essere definita come una vera e propria responsabilità da colpa di organizzazione, caratterizzata dal malfunzionamento della struttura organizzativa dell’ente, la quale dovrebbe essere volta – mediante adeguati modelli – a prevenire la commissione di reati”. Sul punto, si riportano le conclusioni delle Sezioni Unite del caso Thyssenkrupp, secondo le quali “in tema di responsabilità da reato degli enti, la colpa di organizzazione, da intendersi in senso normativo, è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli” (Sez. Un., n. 38343 del 24 aprile 2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri Rv. 261114).

Inoltre, giova evidenziare che, ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. 231/2001, la responsabilità dell’ente da reato è autonoma, “”trovando nella commissione di un reato da parte della persona fisica il solo presupposto, ma non già l’intera sua concretizzazione”.

A questo punto, la S.C. pone a sostegno della motivazione il ragionamento che la stessa ha compiuto nel corso degli anni per consentire l’applicabilità, apparentemente inconciliabile, dei reati colposi con i concetti dell’interesse e vantaggio, quali presupposto per la commissione del reato-presupposto.

Ebbene, come noto, la giurisprudenza ha elaborato un criterio di compatibilità, secondo il quale, “l’interesse o vantaggio per l’ente, di cui all’art. 5, non deve riferirsi alla commissione dell’evento del reato, ma deve riguardare unicamente la condotta (Sez. Un., n. 38343 del 24 aprile 2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri Rv. 261115). È chiaro, infatti, che un interesse per l’ente può essere ottenuto dalla violazione delle norme antinfortunistiche solamente al momento della condotta ed al netto dell’evento, sub specie di risparmio di spesa o di accelerazione e massimizzazione della produzione”.

Le Sezioni Unite, Thyssenkrupp, hanno chiarito anche che “i criteri di imputazione oggettiva, (di cui all’art. 5 del d.lgs. 231/2001, dell’interesse o del vantaggio), sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell‘interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito (Sez. Un., n. 38343 del 24 aprile 2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri Rv. 261114)”.

Nel caso di specie, dopo aver esposto tale premessa, i giudici della legittimità pongono a fondamento dell’accoglimento del ricorso l’impostazione di cui sopra rispetto ai criteri di interesse e vantaggio.

E, infatti, rammenta la Cassazione, “la volontà di risparmiare è dunque indispensabile affinché sussista l’interesse dell’ente. Diversamente deve ragionarsi con riferimento al vantaggio. Esso è criterio oggettivo, legato all’effettiva realizzazione di un profitto in capo all’ente quale conseguenza della commissione del reato. Per questo deve essere analizzato, a differenza dell’interesse, ex post”. Nei reati colposi si dovrà guardare, però, solamente al vantaggio ottenuto tramite la condotta. Ciò significa che, in tema di reati colposi relativi alla violazione di normativa sul lavoro, qualora la persona fisica abbia violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto, allora potrà ravvisarsi il vantaggio per l’ente.

 

Nel caso in esame, per la S.C., la impugnata sentenza è assolutamente carente in merito alla prova dei criteri sopra esposti.

In particolare, richiamando orientamento consolidato della Cassazione (cfr. Sez. IV, n. 32899/2021), si precisa che “proprio l’enfasi posta sul ruolo della colpa di organizzazione e l’assimilazione della stessa alla colpa, intesa quale violazione di regole cautelari, convince che la mancata adozione e l’inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente agli artt. 6 e 7 del decreto n. 131 del 2001 ed all’art. 30 del dl.gsvo n. 81 del 2008 non può assurgere ad elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente, ma integra una  circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione, che va però specificamente provata dall’accusa, mentre l’ente può dare dimostrazione dell’assenza di tale colpa. Pertanto gli elementi costitutivi dell’illecito dell’ente, oltre alla compresenza della relazione organica e teleologica tra il soggetto responsabile del reato presupposto e l’ente (cd. immedesimazione organica), sono la colpa di organizzazione, appunto, il reato presupposto ed il nesso causale che deve correre tra i due”.

4.    Conclusioni

In definitiva, la Suprema Corte conclude affermando che la Corte territoriale non ha motivato sulla concreta configurabilità di una colpa di organizzazione dell’ente, non ha approfondito l’aspetto relativo al concreto assetto organizzativo adottato dall’impresa in tema di prevenzione dei reati della specie di quelli del quale qui ci si occupa, né ha stabilito se tale elemento abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto. La impugnata sentenza viene pertanto annullata con riferimento alle osservazioni sopra formulate.

Avv. Adamo Brunetti

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